22.11.07
Pericolosità
sociale, internamento e detenzione.
Pregiudizi psicologici in ambito giuridico e forense.
Dr. Davide di Francia
PDF
Introduzione
L’esistenza degli istituti penitenziari di
internamento (soprattutto quelli che non hanno teoricamente
rapporto con la malattia mentale) e il concetto
di pericolosità sociale hanno da sempre occupato
una posizione controversa che inevitabilmente ha
alimentato rivendicazioni e polemiche più
o meno legittime.
A ben vedere la distinzione tra istituti penitenziari
d’internamento per malati mentali e per criminali
“sani di mente” è più
fittizia che reale nonostante proprio sulla base
di questa distinzione si costruiscano linee di difesa
processuali e destini individuali. Tale distinzione
è generata dal misconoscimento di conoscenze
psicologiche che dovrebbero ormai essere da tempo
consolidate. Non si capisce perché alcuni
disturbi mentali vengono considerati tali, mentre
altri disturbi mentali forse meno eclatanti, ad
esempio il disturbo di personalità antisociale
o la perversione, non vengono riconosciuti come
disturbi mentali a tutti gli effetti. Questo atteggiamento
sorprende perché basterebbe aprire il banalissimo
DSM IV-R, universalmente utilizzato, per scoprire
che tutte queste diverse manifestazioni psicopatologiche
rientrano a pieno titolo nella categoria dei disturbi
mentali. Qualcuno potrebbe ipotizzare che questi
sono più gravi di quelli. Ma anche dal punto
di vista della strutturazione, della stabilizzazione,
della resistenza al cambiamento e degli effetti
nocivi su di sé e sugli altri il disturbo
di personalità antisociale e la perversione
non hanno nulla da invidiare neppure alle psicosi
e alle schizofrenie più scompensate. Anzi,
mentre un antipsicotico produce spesso effetti di
compenso significativi non esistono farmaci, psicoterapie
o altre forme di intervento che producano effetti
sensibili nei soggetti antisociali e perversi.
Questo misconoscimento produce effetti indesiderati
a molti livelli, da quello giudicante, a quello
del rapporto tra istituti penitenziari (ad esempio
tra Opg e case di lavoro), tra istituti penitenziari
e altri enti (ad esempio con le Ausl o con la Magistratura),
tra operatori all’interno dello stesso istituto
penitenziario. Diventa infatti difficile adottare
percorsi di sostegno al soggetto internato condivisi
e armonici, complicando così un iter già
critico e pieno di insidie per sua natura. Queste
considerazioni sono intimamente connesse con un
altro pregiudizio psicologico faragginoso ma estremamente
rilevante dal punto di vista giuridico: la capacità
di intendere e volere. Non affronterò in
questo contesto la questione nel suo complesso ma
è del tutto evidente che viene ipotizzato
uno stretto rapporto tra “vere malattie mentali”
e la capacità d’intendere e volere.
Le “vere malattie mentali” sarebbero
quelle dove non è reperibile la capacità
d’intendere e volere. Mi limito a rilevare
che nessuna forma psicopatologica viene agita da
un soggetto con piena capacità d’intendere
e volere benché sia necessario ipotizzare,
al cuore di ogni soggetto, un punto libero da patologia
che gli consentirebbe di scegliere, se lo “volesse”,
di determinarsi anche in modo non patologico. Tuttavia,
una cosa è sostenere che qualunque soggetto
ha la possibilità, per quanto remota, di
uscire dalla propria patologia e un altra è
affermare che un soggetto patologico, in quanto
tale, sia capace d’intendere e volere; se
lo fosse non sarebbe patologico. Trovo utile articolare la riflessione sulla pericolosità
sociale a partire da due considerazioni distinte:
1. il danno sociale, cioè la necessità
di proteggere cittadini innocenti;
2. l’esigenza di aiutare il criminale verso
il cambiamento del proprio mondo interno ed esterno.
I due aspetti sono per un verso connessi perché
modificare la struttura interna del criminale in
modo che possa vivere all’interno della società
senza commettere crimini ha evidentemente un effetto
rilevante anche sul fine di proteggere il cittadino
innocente, ma possono anche essere in opposizione
reciproca perché il bisogno di protezione
del cittadino può richiedere l’allontanamento
dalla società del criminale che pur avendo
scontato la pena non abbia mostrato alcun segno
di cambiamento strutturale rimanendo ancora potenzialmente
un uomo che commette reati più o meno gravi
per vivere. Ecco così che ci troviamo al
cuore della delicata questione concernente l’istituzione
dell’internamento nel nostro ordinamento giuridico
dovuto alla valutazione della pericolosità
sociale. Infatti è impossibile accertare
in modo apodittico che un uomo sia oppure no pericoloso
socialmente; così, è difficile sostenere
giuridicamente la necessità di privare della
libertà qualcuno che ha già scontato
la pena per i reati commessi ma che potrebbe probabilmente
commetterne altri limitando la libertà e
la serenità di cittadini innocenti. Esiste
un’ampia polemica causata dall’insoddisfazione
del sistema giudicante che rigetta la prospettiva
probabilistica nella speranza di una certezza, confusa
con “scientificità”, che può
essere solo un’aspirazione ideale o una costruzione
artificiale non realistica.
D’altronde spesso accade che l’internato
pericoloso proprio durante la messa alla prova all’esterno
commetta reati anche gravi. E’ estremamente
difficile tutelare contemporaneamente i diritti
dei cittadini e quelli del reo che ha già
scontato la pena e che fino a prova contraria, per
quanto improbabile, potrebbe sempre non commettere
altri reati nonostante tutte le difficoltà
interne ed esterne. Come muoversi? Vado oltre. Se
anche fosse possibile accertare di qualcuno l’assenza
di sensibili cambiamenti interni e il permanere
in uno stato di devianza stabilizzata e strutturata
(ad esempio in ogni soggetto che ha una diagnosi
di disturbo di personalità antisociale o
di perversione) come ci si dovrebbe regolare? Dato
che permane in uno stato di pericolosità
non modificato è legittimo privare all’infinito
lo stato di libertà di un soggetto che oggettivamente,
perché contenuto, non ha più commesso
reati che giustificherebbero la sua detenzione?
Credo che sia una domanda che dobbiamo porci. La
legge italiana è come se partisse dall’ingenuo
presupposto che un intervento anche abbastanza modesto
e composto prevalentemente dal reinserimento sociale
e dal lavoro all’esterno possa modificare
la vita e la personalità degli internati.
Ma purtroppo ciò non è vero. Se ciò
avvenisse sarebbe un miracolo e la giustizia non
può procedere appellandosi ai miracoli. Noi
sappiamo che non è così e che anche
quando è presente una forte motivazione al
cambiamento, risorsa rarissima nelle carceri, è
necessario un lavoro molto lungo ed impegnativo
per cambiare qualcosa della struttura di un soggetto.
Cosa fare allora?Protezione sociale
Diciamo apertamente e senza ipocrisia che, come
tutti sanno, la maggior parte dei criminali in libertà
tornano nuovamente a commettere i reati per i quali
sono stati reclusi. La nuova legge sull’indulto
ha mostrato ciò con evidenza. Anzi l’impunità
e gli sconti di pena funzionano come un vero e proprio
rinforzo per tutti coloro che, per una ragione o
per l’altra, sono tentati dal crimine. Sappiamo
anche che il carcere, quando è solo limitazione
della libertà, abbrutimento psicofisico,
intento punitivo, anziché avere una efficacia
di allontanamento dal reato né ha una esattamente
opposta di avvicinamento. In modo particolare sappiamo
che i nuovi giunti dalla libertà che entrano
per la prima volta in carcere hanno modo di entrare
in contatto con il mondo del crimine e che spesso
la carcerazione sancisce una vera e propria iniziazione
a questo mondo con precise acquisizioni di regole,
gerarchie e contatti fondamentali per il futuro.
Insomma, il carcere impostato solo in termini punitivi
produce come effetto solo l’aumento del tasso
di criminalità di una società.
Quindi, il pericolo sociale esiste e non bisogna
negarlo o scotomizzarlo ma nello stesso tempo non
si può considerare il carcere come una soluzione
che risolve il problema. Il carcere contiene solo
temporaneamente il problema sociale perchè
raramente aiuta chi vi entra. La Legge 354/75 e
la 663/86 (Legge Gozzini) partendo più o
meno da queste considerazioni hanno compiuto il
salto concettuale dal carcere come luogo punitivo
a luogo del cambiamento della persona attraverso
la rieducazione e la premialità, ma sappiamo
che le risorse messe in gioco e i risultati ottenuti
sono a dir poco molto scarsi. Il carcere è
prima di tutto il luogo dei criminali e della polizia
penitenziaria mentre psicologi, assistenti sociali
ed educatori sono mosche bianche, gocce nell’oceano
con un potere ed un efficacia del tutto marginale.
Se il rapporto tra agenti penitenziari e personale
coinvolto nell’osservazione e il trattamento
è di 50 a 1 ciò significa che il carcere
è fattivamente restato quasi esclusivamente
un luogo di contenimento punitivo e non di trattamento.
La L. 354/75 e la 663/86 hanno innalzato il tasso
di civiltà del nostro Paese ma solo scarsamente
sul piano teorico ed in modo del tutto insufficiente
su quello pratico. Del resto gli interventi prevalenti
introdotti dalla riforma dell’ordinamento
penitenziario si appellano quasi esclusivamente
all’atteggiamento premiale dello Stato italiano
e alla speranza di una magica e, oggi lo sappiamo,
improbabile risocializzazione. L’attività
trattamentale ha da sempre avuto una funzione del
tutto residuale, di contenimento e non di cambiamento.
Si è trattato fin dall’inizio dell’introduzione
di elementi di novità molto deboli ed inefficaci
benché l’intenzione fosse rivoluzionaria.
Lo spirito della riforma è del tutto condivisibile
ma gli elementi teorici e concreti utilizzati sono
stati del tutto insufficienti.
In ogni caso il problema della “gestione del
criminale” non è solo da porre in termini
di rispetto dei diritti di chi ha commesso un reato
che certo devono essere rispettati quanto quelli
di chiunque altro; deve anche essere posto nei termini
della protezione sociale che desideriamo assicurare
ai nostri cittadini. E questo è un problema
generale che riguarda tutti i detenuti e non solo
gli internati. Infatti come potrebbero sentirsi
tranquilli i cittadini se consapevoli del fatto
che i detenuti e gli internati escono dall’istituto
penitenziario avendo sì scontato la pena
ma strutturalmente devianti e antisociali come prima
se non più di prima? Non molto direi. Pertanto
ritengo che il problema sia solo marginalmente quello
della certezza della pena che certamente disincentiva
ma non modifica la “natura” dell’uomo
né il suo impatto sociale. La questione centrale
è invece quella del cambiamento strutturale
del soggetto criminale. Da questo punto di vista
viene a volte sollevata la tesi dell’iniqua
e innaturale volontà di ”normalizzazione”
dell’uomo che si oppone ad uno stato soffocante.
Il soggetto verrebbe deprivato della sua identità
e assoggettato al potere dello stato normalizzatore
mentre ogni individuo dovrebbe essere libero di
individuarsi in modo del tutto singolare e senza
limitazione alcuna. In questo momento storico liberista
questa idea che ognuno deve essere libero di autodeterminarsi
come meglio crede trova il terreno fertile e difficilmente
si riconosce che la libertà di ognuno di
noi è necessariamente limitata dalla libertà
degli altri cittadini. Se non regolate le libertà
non possono che entrare in rotta di collisione.
Se qualcuno si sentisse libero truffando, ricattando
o stuprando il prossimo, è evidente che sorgerebbe
un conflitto di libertà. Quindi in un qualche
modo la libertà, come la giustizia, deve
essere “uguale per tutti” e per esserlo
deve essere limitata. Ritengo che la libertà
da limitare sia sempre quella di chi in modo prepotente
minaccia o viola la libertà altrui. Non ho
pertanto alcuna esitazione nel sostenere che tra
il legittimo bisogno del cittadino rispettoso delle
leggi e il diritto di una nuova possibilità
richiesta dal criminale che non ha modificato significativamene
il proprio atteggiamento verso la Legge e la società,
considero primaria la prima opzione. Questo non
significa però dover fingere che certamente
un soggetto tornerà a delinquere oppure,
successivamente, che certamente la pericolosità
sociale è assente. Al contrario esistono
solo le posizioni intermedie e, pertanto, probabilità
più o meno elevate che la reiterazione del
reato avvenga. Tutto sommato neppure rispetto ad
un soggetto incensurato possiamo sostenere che la
pericolosità sia pari a zero. Il punto quindi
non è se c’è oppure no pericolosità
sociale ma se è avvenuto oppure no un cambiamento
significativo del soggetto rispetto alla Legge e
alla società.
Anche a causa della mancanza di una adeguata comunicazione
e condivisione teorica tra operatori coinvolti all’interno
di questi processi (psicologi, assistenti sociali,
giudici, magistrati, educatori, periti, ecc…)
gli atti di tutti continuano nella direzione di
quanto previsto dalle disposizioni di legge attuali
con forzature e reciproche convinzioni e fraintendimenti.
Ad esempio i giudici saranno convinti, o fingeranno
d’esserlo, che i periti possano effettivamente
accertare con precisione scientifica e oggettiva
la pericolosità di un uomo così come
il perito dovrà fare “come se”
ciò fosse possibile riferendo una certezza
che in realtà è solo una probabilità
non dichiarabile tale. Infatti la credenza della
certezza della valutazione della pericolosità
sociale costringe gli operatori che lavorano nelle
carceri e che si occupano delle attività
di osservazione e trattamento, così come
i periti che hanno il compito di accertare la presenza
della pericolosità sociale, ad utilizzare
toni apodittici e a fare “come se” la
presenza e/o l’assenza di una qualità,
la pericolosità sociale, fosse accertabile
con precisione. Al contrario sappiamo che può
essere solo ipotizzata probabilisticamente a partire
da alcuni elementi dell’osservazione nessuno
dei quali è in grado di determinare con certezza
il futuro comportamento di un uomo. Non si deve
confondere il realismo di un atteggiamento probabilistico
con una mancanza di scientificità.2 E’
possibile scientificamente stabilire il tasso di
pericolosità di un soggetto all’interno
di un orizzonte pienamente scientifico. Se poi l’ipotesi
di mancanza di scientificità fosse legata
al desiderio di una certezza che non esiste allora
saremmo di fronte ad un atteggiamento scientificamente
poco rigoroso. Il problema della sicurezza e della protezione
mi pare possa essere affrontato in tre modi tutti
legittimi ma con potenziali di efficacia molto diversi:
1.temporaneamente allontanando e contenendo il soggetto
deviante e antisociale;
2.stabilmente aiutando il soggetto deviante e antisociale
a modificare la sua struttura di personalità;
3.in via preventiva evitando che all’interno
delle società si producano dei criminali. Il primo modo si ottiene attraverso la detenzione
ma ha un’efficacia solo temporanea e non interviene
modificando la natura del problema; il secondo modo
viene affrontato di seguito nel presente articolo;
il terzo modo è il più importante
ed implica una approfondita riflessione sulle nostre
società che non verrà affrontata nel
presente articolo perché ci porterebbe troppo
lontano.
Solo dalla sinergia dei tre livelli è possibile
attendersi dei risultati accettabili. Diversamente
continueremo ad avere esiti totalmente fallimentari.
Oggi tutto il problema della sicurezza e della protezione
è invece affrontato esclusivamente con il
I punto. Ora, anche a partire da quanto esposto in precedenza,
mi sembra necessario sottolineare ed evidenziare
la presenza di alcune credenze psicologiche che
hanno modellato le leggi e l’iter dei percorsi
giuridici e penali: 1. la certezza della valutazione
di pericolosità sociale; 2. la modificabilità
della struttura della personalità dei soggetti
immessi all’interno dei percorsi rieducativi
e di reinserimento sociale in tempi relativamente
brevi 3. la indole o la “tendenza” delinquenziale
che se esistesse davvero non consentirebbe alcun
cambiamento e quindi nessuna possibilità
di revoca della pericolosità sociale. La
categoria giuridica del criminale per tendenza che
porta ad una misura di sicurezza di 3 anni è
un controsenso perché se esistesse il criminale
per tendenza sarebbe inutile rivalutare la sua pericolosità
mentre invece dovrebbe essergli assegnata la misura
perpetua poiché la tendenza non è
soggetta a cambiamento. Per quanto riguarda la certezza
della valutazione di pericolosità sociale
mi sono già espresso in precedenza. Infine,
la modificazione della struttura della personalità
sarà l’oggetto del prossimo paragrafo.
Modificare la struttura
La pericolosità sociale è una qualità
presente oggi ma che è desumibile da ciò
che l’esperto valuta possa essere l’azione
futura del soggetto esaminato, atto o atti comportamentali
che non verranno mai eseguiti proprio per effetto
della limitazione della libertà. Da un lato
ciò è rassicurante per l’esperto
perché nessuno sarà mai nella condizione
di dimostrare il contrario, infatti non esisterà
mai il futuro all’esterno che dimostrerebbe
l’esattezza o la scorrettezza della valutazione.
Tuttavia questa situazione è anche molto
frustrante per l’esperto perché nulla
mai potrà dimostrare la correttezza della
sua valutazione e lo costringe all’incertezza
e al dubbio perpetuo rispetto ad una decisione estremamente
rilevante e invalidante per la vita di un soggetto.
Abbiamo detto che una valutazione del rischio è
doverosa ed inevitabile per prevenire tragedie annunciate
come quelle di pedofili mai pentiti che appena rimessi
in libertà devastano la vita di altri bambini
che certo non possono essere sacrificati in nome
del nostro buonismo ipocrita. I nostri politici
vanno in fibrillazione contemporaneamente in nome
del garantismo degli imputati e del lassismo dei
giudici indignandosi per colpe che sono solo loro
perché sono proprio i politici che devono
assumersi l’onere di scelte difficili da trasformare
in leggi operative come appunto quella tra garantismo
e lassismo. I giudici non possono far altro che
applicare le leggi che il legislatore ha varato.
I politici sono dei ricercatori di consenso e destinati
a tentare sempre la quadratura del cerchio, non
prendono decisioni e danno ragione a tutti per piacere
a tutti. Bisogna invertire rotta e tornare ad una
politica forte che soddisfi delle istanze etiche
imprescindibili al prezzo di scontentare qualcuno.
Non c’è nulla di male nello scontentare
qualcuno, anzi è necessario se si vuole attuare
interventi efficaci e trasparenti.
La misura di sicurezza prevede che dopo un paio
di mesi di osservazione all’interno dell’istituto
di pena si giunga, in ragione delle risorse interne
ed esterne dell’internato ed in collaborazione
con i servizi presenti sul territorio (legami famigliari,
opportunità lavorative, servizi sociali,
sert, ecc..), ad un lavoro di tessitura di un progetto
da mettere alla prova all’esterno che consenta
il reinserimento nel tessuto sociale dell’internato.
Molto spesso dai contatti con i servizi territoriali
si apprende che è già stato tentato
di tutto con il soggetto e che non esistono progetti
possibili all’esterno che hanno una ragionevole
probabilità di successo. Anzi, la carcerazione
e l’internamento sono spesso vissuti dagli
operatori del territorio come una “soluzione”
che consente a tutti di prendere fiato e tirare
un respiro di sollievo. Spesso anche le famiglie
già molte volte tradite e deluse non sono
disponibili a concedere ulteriori aiuti. Molti internati
non hanno una casa, dei legami affettivi e delle
relazioni significative, non hanno un lavoro, ecc…
Paradossalmente gli unici che riescono rapidamente
a porsi nelle condizioni di articolare un progetto
che ha una parvenza di consistenza (casa, famiglia,
proposte di lavoro, disponibilità, ecc..)
sono gli internati in odore di mafia e affini. Dico
paradossalmente perché al di là delle
apparenze e delle “risorse oggettive”
a disposizione sono i soggetti nella sostanza ovviamente
più pericolosi socialmente. Insomma in molti
casi non è possibile articolare un progetto
di alcun tipo, spesso i progetti falliscono nell’arco
di poche settimane, sono delle assolute rarità
i percorsi che vanno in porto. Cosa significa? In
primo luogo che un progetto di reinserimento messo
insieme nell’arco di pochi mesi e fondato
su elementi meramente concreti come il lavoro e
un posto dove dormire con dei soggetti che hanno
vissuto una vita disastrosa da tutti i punti di
vista, è un progetto estremamente debole.
In secondo luogo non c’è niente che
può modificare un soggetto se questo non
ha deciso di cambiare la propria vita. Non si può
nulla senza la motivazione.
Quindi c’è una questione temporale,
una questione concernente l’impiego di tempo
in esperienze formative significative e una questione
di riposizionamento del soggetto in relazione alla
Legge e al mondo umano. Solo attraverso la sinergia
di interventi integrati che coinvolgono contemporaneamente
i due livelli sopra indicati è possibile
elevare le probabilità di azioni efficaci
a sostegno dei soggetti internati. Attualmente nessuno
dei due livelli è contemplato dalla normativa
vigente e, di conseguenza, non ha alcuna applicazione
concreta.